ABSTRACT
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This article traces the different theoretical nodes that are at the basis of a research that started in 2016 and concluded in 2021 with the making of the documentary Venice Elsewhere, which seeks to investigate the chronic illness of a city. A population that in the historic centre, to date, is about to fall below the threshold of 50,000 residents, with a tourist flow that is calculated in tens of millions of presences per year, and a surface area of 8.3 square kilometres that assertively responds to a market that has one single demand: to watch.
A hyper-exposure that over the decades has led to a paradox: the boundaries of the city, as in an overexposed photo, are becoming blurred, caught between an emptying of identity and an increasingly widespread desire to imitate its forms, or just to use its name, elsewhere in the world. In my work I wanted to meet those who evoked Venice without ever having been there, but feeling it to be their own.
CARTOLINE ​ ​
«Sappiamo che ci sono parole che “fanno immaginare”: l’immaginazione di tutti coloro che non sono mai andati a Tahiti o a Marrakech può dispiegarsi liberamente non appena questi nomi sono letti o sentiti. […]. Certi luoghi non esistono che attraverso le parole che li evocano» (Marc Augé, Non luoghi, 1992: 88) Nel 2009 alla Biennale di Venezia, per la cinquantatreesima esposizione d’arte, fu allestita un’opera semplice quanto emblematica: un espositore dove chiunque, gratuitamente, poteva prendere alcuni cartoncini a guisa di cartolina delle Venezie di Aleksandra Mir. Artista di origine polacca, Mir aveva deciso di stampare cento immagini diverse, 10.000 copie ad immagine per un totale di un milione di pezzi, nelle quali si potevano osservare paesaggi da tutto il mondo, tra i più svariati, tutti in qualche modo riconducibili all’elemento dell’acqua. Quello che connotava l’opera era però ciò che era sovraimpresso alla prima immagine: una grafica naïf tipica delle cartoline turistiche dichiarava che il luogo in questione fosse, appunto, Venezia. Così i saluti dalla città lagunare si sovrapponevano di volta in volta alle immagini del Tamigi, del Danubio, di un ghiacciaio, di un lago e via dicendo. In questo senso la città superava la nozione di luogo, si dematerializzava, diventando una specie di epica narrabile ovunque, in diversi tempi e linguaggi: la sua esistenza diventava reale nel momento stesso in cui veniva favoleggiata, come se bastasse evocarne il nome per generare continuamente la sua rifondazione. La città di Venezia è ricca di peculiarità che la rendono immediatamente riconoscibile: i canali, i ponti, le gondole, certi edifici, e ancora la struttura urbana, l’acqua alta, il carnevale. Il suo potere evocativo è immediato; la parola Venezia, come dice Augé, diventa subito immagine. Questo senso, diciamo così, di mancanza dell’anonimato, nei secoli ne ha fatto la fortuna portandola a diventare meta di grandi viaggiatori, artisti e letterati che nel dipingerla, nel descriverla, ne hanno reso note le fattezze al resto di un certo mondo, molto prima dell’invenzione di cinema e fotografia. Nei secoli l’impossibilità stessa si apportare grandi cambiamenti urbani, date le ridotte dimensioni e le caratteristiche morfologiche del centro storico (118 piccolissime isole collegate tra loro da 435 ponti), insieme alla sua forte riconoscibilità, ne hanno fatto anche la sfortuna, portando alla cristallizzazione del suo paesaggio nell’immaginazione di chi non l’ha mai visitata, di chi la visita e, addirittura, dei suoi stessi abitanti. In questo senso Salvatore Settis in Se Venezia muore, rifacendosi alla descrizione di Zora, tra le Città invisibili di Italo Calvino quella che cerca di rimanere immutata nel tempo per poter essere ricordata e che proprio per questo rischia di sparire, scrive: «Il paradosso della memoria è che essa ha bisogno del mutamento, così come ha bisogno di conservare e ripetere sé stessa» (Settis, 2014: 16). L’operazione di Mir diventa così la negazione di questo inseguimento d’immagini di strutture materiali iper-riconoscibili. Venezia non sarà né il ponte di Rialto né piazza S. Marco, ma sarà solo una parola, il nome di una città, a tinte molto colorate, sopra altre icone che geograficamente non le corrispondono o su paesaggi non riconoscibili, anonimi. La parola Venezia, come una grazia o uno stigma, stampata, cucita, proiettata o quant’altro, sembra cioè sufficiente a far diventare parte della città l’oggetto su cui si appone, sua evocazione e sua appendice, a prescindere dal tempo e dal luogo. La fuga dal paesaggio (così come dall’overtourism) è spesso una necessità per chi è nato nel centro storico di Venezia, dove la catalogazione ininterrotta dello spazio pubblico e privato viene riconfermata continuamente da viaggiatori che la documentano con macchine fotografiche, telecamere, tele e colori, carta e penna, considerando che le pareti della propria abitazione spesso confinano con b&b, alberghi, airbnb2. A prescindere dal grado di inquietudine personale, l’esigenza d’altrove per un veneziano è spesso indotta. Venice Elsewhere è stato anche il piacere di vedere deformate, forse negate, le forme gotiche, barocche, rinascimentali della propria città, intoccabili perché sempre troppo preziose. Un’evasione dalla musealizzazione lì dove il museo è una prigione (Sitte, 1889), e lì dove un’intera città può diventare un museo (Agamben, 2005). Vedere altri spazi completamente diversi da quelli storici e storicizzati che usano la parola Venezia per definirsi sono stati anche un’opportunità per poter rivedere questa storia da lontano, per renderla respirabile. Le cartoline veneziane di Aleksandra Mir sono state un invito al viaggio e alla ricerca.
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